Le strategie per vincere la difficile battaglia contro il grasso corporeo

Le persone sovrappeso sono sempre di più. Si stima che in Italia oltre il 35% della popolazione sia sovrappeso. Circa 21 milioni di persone che si trascinano dietro chili di troppo con effetti negativi sulla loro salute.

Esiste però un problema perfino più complesso della perdita di peso in generale. Quello dell’accumulo adiposo in specifiche zone del corpo. Tra quelle persone che riescono a dimagrire, un numero elevato perde peso ovunque tranne dove vorrebbe. Uomini con volti scavati ma con la pancia, donne con il seno svuotato, ma il sedere con la cellulite.  Come mai? Perché accumuliamo grasso in modo diverso? E perché facciamo così tanta fatica a perderlo esattamente dove vorremmo?

Come prima cosa dobbiamo abbandonare l’idea che il corpo funzioni esclusivamente secondo le leggi della termodinamica come se fosse una caldaia. Senza dubbio un eccesso di calorie rispetto ai consumi causa, ad un certo punto, un accumulo di grasso, ma dove viene depositato nel corpo non ha nulla a che fare con la matematica, ma con l’endocrinologia individuale.

Gli ormoni sono l’anello principale di trasferimento dell’informazione genetica in azioni biologiche nel nostro organismo. In termini tecnici i nostri ormoni sono fondamentali per trasformare le informazioni contenute nel DNA dette genotipo in risultati morfologici e biologici concreti che costituiscono quello che si chiama fenotipo.

Questo ruolo si osserva in maniera potente nei momenti di grande cambiamento ormonale come la pubertà o la menopausa.

Nel primo caso il massiccio aumento della produzione di ormoni sessuali porta allo sviluppo dei caratteri sessuali secondari. Il testosterone porta i maschi ad avere più muscoli, un tono della voce più bassa, più peli corporei e una serie di caratteristiche comportamentali. Gli estrogeni e il progesterone nella donna danno il via al ciclo mestruale, incrementano il seno, incidono sui comportamenti e sulla personalità e danno anche una specifica tendenza all’accumulo di grasso, in particolare su glutei e cosce.

La parola chiave perché questo effetto complesso si manifesti in maniera corretta è equilibrio. Infatti né estrogeni né testosterone in sé causano un aumento di grasso, anzi. Ma quando l’equilibrio tra i vari ormoni viene compromesso, l’effetto complessivo che essi hanno cambia e può incidere negativamente sul deposito di grassi.

Nel maschio: un progressivo calo del testosterone, spesso associato ad un aumento degli estrogeni, comporta una perdita di massa muscolare. Questa si traduce a sua volta in una progressiva insulino-resistenza che causa aumento dei depositi nella zona addominale con aumentato rischio di patologie cardio-metaboliche.

Soluzioni: nel corso della vita è importante per il maschio monitorare i livelli di testosterone ed estrogeni e rivolgersi ad uno specialista nel caso si abbassino eccessivamente il testosterone e aumentino gli estrogeni. Oltre ovviamente a curare l’alimentazione,  è fondamentale fare sport regolarmente e in particolare attività come i pesi che rafforzano la muscolatura e rallentano lo sviluppo di insulino-resistenza, oltre a stimolare la produzione di testosterone.

Nella donna: una aumento degli estrogeni rispetto al progesterone favorisce in età fertile il deposito del grasso nella zona inferiore del corpo. In questo caso si tratta di grasso sottocutaneo molto difficile da smaltire perché poco vascolarizzato. Inoltre il grasso sottocutaneo contiene molti recettori estrogenici e produce esso stesso estrogeni e quindi favorisce l’instaurarsi di un circolo vizioso. Dopo la menopausa il calo di estrogeni e di progesterone lascia la donna in una condizione di relativo aumento del testosterone. In questo caso però il testosterone ha un’azione metabolica negativa e tende ad indurre un accumulo di grasso viscerale.

Soluzioni: è fondamentale monitorare i livelli ormonali nel corso della vita ed evitare che subentri una dominanza estrogenica, ossia un eccessiva produzione di estrogeni rispetto al progesterone in età fertile. Dopo la menopausa, quando non ci sono controindicazioni specifiche, è molto utile la terapia ormonale sostitutiva con ormoni bioidentitici (estradiolo transdermico + progesterone micronizzato) per mantenere il corretto equilibrio ormonale. Ovviamente anche nel caso della donna sono fondamentali alimentazione corretta e allenamento fisico, in particolare attività in grado di stimolare la circolazione nelle aree con maggiori depositi.

Insomma l’idea che ridurre le calorie e aumentare i consumi possa risolvere il complesso problema del sovrappeso e dei depositi di grasso in specifiche zone è piuttosto superficiale. Quello che serve invece è un approccio integrato metabolico-endocrino che in poche strutture viene offerto.

La speranza è che mano mano che la scienza comprende meglio i meccanismi coinvolti, sempre più clinici siano in grado di gestirli con un approccio integrato, l’unico capace di portare a dei veri risultati.

Amminoacidi e proteine: ecco come ottimizzare il recupero muscolare

Aminoacidi o proteine? Non c’è ombra di dubbio che l’integrazione alimentare sia diventata un pilastro della vita dell’atleta e anche di tutte quelle persone che fanno attività fisica in maniera seria e dedicata. Parlo dell’integrazione alimentare in senso lato perché ci sono tanti nutrienti che fan bene all’atleta in varie aree, però non c’è ombra di dubbio che l’area più importante per uno sportivo da curare è quella del recupero muscolare e c’è da dire che man mano che l’età avanza e quindi non si è più, diciamo, il vero atleta, che è un giovane, la difficoltà di recupero del muscolo diventa molto più accentuata.

Si parla proprio di una vera e propria resistenza anabolica, cioè il muscolo che viene stimolato dall’esercizio fisico fa più fatica a recuperare, a reagire e a crescere man mano che passano gli anni e l’integrazione alimentare con aminoacidi o con proteine ha un ruolo importante e scientificamente documentato ad aiutare il muscolo a superare questa resistenza anabolica e rendere quindi l’allenamento veramente proficuo, perché chiaramente uno dei problemi che tante persone hanno è l’investimento di tempo. Se sei così bravo da investire il tempo nell’allenarti seriamente, ma il muscolo non risponde, è chiaro che è un investimento di tempo poco proficuo.

Tuttavia esiste una grande confusione sull’utilizzo degli amminoacidi o delle proteine e la confusione credo nasca soprattutto dal fatto che essendo le proteine composte da amminoacidi ci si domanda “ma che differenza reale c’è tra assumere proteine e assumere amminoacidi se alla fine comunque ciò che viene assorbito dal muscolo sono gli amminoacidi?”.

Allora in effetti è un tema interessante però credo che ci sia bisogno di una certa schematizzazione per capirlo, anche perché non c’è un approccio giusto o un approccio sbagliato.

L’importante è capire quali sono le differenze e devo dire che tutto fondamentalmente dipende da due fattori:

-la completezza dell’azione biologica.
-la velocità di assorbimento, ossia la velocità con cui quei nutrienti arrivano effettivamente nel muscolo.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che gli amminoacidi per esempio sono nettamente più rapidi nell’assorbimento, perché non necessitano di una vera e propria digestione, ma sono nettamente meno completi come azione biologica perché non sono tutto sommato un vero “nutriente”. Nell’alimentazione naturale non mangiamo amminoacidi, mangiamo delle proteine che diventano amminoacidi.

Gli amminoacidi, proprio a testimonianza della loro minor completezza e del ruolo metabolico differente, non apportano calorie quindi possono essere anche utili per esempio in determinate condizioni di restrizione calorica. Gli amminoacidi “ramificati” che sono delle miscele di leucina, isoleucina e valina sono ancora più rapidi, addirittura saltano il passaggio epatico e vanno diretti nei muscoli, ma la completezza d’azione è ancora più bassa perché non è un insieme, una miscela di amminoacidi completa, ma sono soltanto tre amminoacidi.

Le proteine d’altra parte hanno un’azione biologica più complessa; apportano 4 kcal per grammo, hanno delle azioni che sono indipendenti, se vogliamo, dalla presenza degli amminoacidi in quanto tali, cioè la proteina non ha un’azione che è semplicemente data dalla somma dei suoi amminoacidi, è un pelo più complesso di così e, per esempio, le proteine contengono degli oligopeptidi che sono molto importanti per stimolare il sistema immunitario, per esempio la lattoferrina per citarne uno.

Quindi come completezza d’azione, indubbiamente la proteina ne ha di più, d’altra parte però proprio per questo motivo le proteine tendono ad avere un assorbimento molto più lento. Indubbiamente quelle alimentari, estremamente più lento, ma in un certo senso anche gli integratori di proteine hanno un assorbimento più lento rispetto agli amminoacidi.

Perché la lentezza, o la velocità, sono così importanti? Perché secondo le ricerche scientifiche dopo un allenamento esiste una cosiddetta finestra anabolica di 30-45 minuti in cui il muscolo è particolarmente adattato ad assorbire nutrienti, e noi avremmo un grande bisogno di sfruttare questa tempistica.

Ma con le proteine alimentari questo sarebbe impossibile, perchè richiedono molto più tempo per essere assorbite. Ecco che allora entra in gioco il ruolo delle proteine come integratori. E anche qua si possono fare delle scelte.

Le proteine oggi più studiate sulle quali c’è indubbiamente più ricerca sono le proteine del siero del latte e già solo queste vengono in diversi formati:

– Le proteine idrolizzate sono trattate enzimaticamente e sono molto più rapide, quindi sono più simili agli aminoacidi. Perdono qualcosina in termini di completezza d’azione, ma sono molto rapide.
– Le proteine isolate mantengono una buona completezza d’azione, ma sono un pelo più lente. Stiamo parlando di un 20-30 minuti per essere assorbite.
– Le proteine del siero del latte concentrate sono quelle che hanno l’azione più completa, ma si avvicino di più a un alimento vero e quindi vengono assorbite più lentamente.
– Ancora più lente di queste ci sono le proteine del bianco d’uovo e la caseina che è una proteina utilizzata proprio apposta perché ha un assorbimento molto graduale e lento nell’arco delle 7-8 ore.

Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che in realtà non c’è una necessità di scegliere una strada piuttosto che un’altra, ma capire come utilizzarla.

Allora personalmente io amo suggerire questo tipo di protocollo; le proteine isolate del siero del latte nel post allenamento perché hanno un’ottima azione in termini di completezza e come tempistica stanno dentro a quello che ci serve, cioè quei 30-45 minuti. La completezza d’azione mi interessa soprattutto a livello di stimolazione immunitaria visto che l’immuno depressione post sforzo è una realtà e visto che una delle cose tipiche dell’atleta (in particolare se va verso il sovrallenamento) è quella di inibire il sistema immunitario, ecco che queste proteine possono essere molto utili.

Viceversa nel pre-allenamento, quando magari voglio che semplicemente il muscolo abbia un certo grado di protezione, ma c’è una tempistica ridotta da sfruttare, a me piace suggerire gli amminoacidi ramificati.

Ribadisco che non c’è un giusto e sbagliato, l’importante è sapere come utilizzare queste sostanze. Sostanze che ritengo abbiano come dicevo in apertura un ruolo molto importante sicuramente nell’atleta agonista, ma anche in tutte quelle persone che stanno diciamo andando avanti con gli anni e che intendono usare l’attività fisica come mezzo preventivo e di promozione della salute, non parlo quindi solo dalla passeggiata col cane, ma parlo di veri e propri allenamenti, questi strumenti diventano di fondamentale importanza.

 

5 passi per superare la paura di fallire

È raro incontrare una persona che non abbia fallito in qualcosa nella sua vita. Ma nella maggior parte dei casi le persone tendono ad accumulare più successi che sconfitte. Quasi tutti noi studiamo qualcosa, troviamo un partner e un lavoro e, in qualche modo, riusciamo a gestire la nostra esistenza. Eppure il peso che diamo alle piccole o grandi sconfitte è di gran lunga superiore a quello riservato ai successi e, a volte, finisce con il predominare la sfera emotiva e condizionare le nostre scelte.

 

La paura di fallire ci blocca e molto spesso diventa essa stessa la causa principale dei nostri insuccessi.

Ma come per ogni cosa nella vita, la difficoltà di gestire la sconfitta è proprio legata alla scarsa esperienza che facciamo con essa. È una classica spirale: siamo poco allenati ad affrontare le sconfitte e per questo ne abbiamo una paura pazzesca e questa paura ci porta ad un maggior rischio di fallire.

Questo meccanismo perverso inizia fin da piccoli. Allevati da genitori a loro volta impauriti, siamo tenuti alla larga da ogni possibile esperienza di sconfitta, da quelle banali a quelle più serie. “Non cadere”, “non farti male”, “non perderti”, “non rischiare”, “cerca un lavoro sicuro”, “compra casa appena puoi”, sono tutti esempi di tentativi educativi orientati a soddisfare un bisogno di sicurezza che finiscono però con amplificare la paura e rendere più difficile una sana interazione con il fallimento e l’apprendimento.

La paura di fallire è profondamente radicata nella nostra biologia e trae origine dalla paura di essere abbandonati, rifiutati, di non poter appartenere ad un gruppo, cosa che in antichità era fondamentale per permettere la sopravvivenza.

Predisposizione biologica e condizionamento educativo e sociale finiscono col rendere il fallimento una specie di tabù, di cui non si deve nemmeno parlare perché magari porta sfortuna.

Ma nella vita non possiamo controllare tutto come speriamo e quindi le sconfitte, le sofferenze e i fallimenti arrivano per tutti. Il loro impatto su un esistenza è direttamente collegato alla capacità di vederli e gestirli come un evento e non come una catastrofe totale. In psicologia si parla di resilienza per indicare quella proprietà di flettersi in risposta ad una forza maggiore ma di non spezzarsi e, piano piano, di riprendere la forma iniziale, ma con un nuovo bagaglio di forze che ci aiuteranno alla prossima occasione.

In fondo si tratta di un allenamento anche in questo caso. E quindi meno ci esponiamo allo stimolo allenante e più ci troveremo in difficoltà. Ma per cambiare il nostro approccio nei confronti della paura di fallire abbiamo bisogno di fare una serie di passi che magari ci sembrano difficili all’inizio, ma che possono poi diventare automatici:

  1. Affrontare spesso piccole sfide che ci portano fuori dalla zona di comfort. Le piccole sfide ci rafforzano e ci allenano. Esse eventualmente comportano dei “micro-fallimenti” con cui possiamo imparare meglio a gestire la paura.
  2. Sviluppare competenze e risorse nelle aree che ci coinvolgono di più nella vita. Ognuno di noi ha delle aree di coinvolgimento che sono allo stesso tempo il teatro più probabile dei nostri fallimenti. Relazioni di coppia, sviluppo della carriera, gestione della salute, sono per esempio tematiche che bene o male tutti affrontiamo e nelle quali possiamo essere preparati o meno. Chi si prepara di più avrà meno chance di avere paura.
  3. Vedere ogni evento negativo come una cosa a sé stante, un episodio, e non come qualcosa di eterno e immutabile. Come ogni cosa nella vita, anche i problemi e i fallimenti arrivano e se ne vanno. L’unica ragione per cui possono rimanere presenti in una vita è quando la persona li tiene legati a sé.
  4. Non cercare scuse, non giustificare quello che accade con la sfortuna. Cerca le cause in maniera obiettiva, ma non giudicare te stesso. L’errore principale è quello di non vedere il fallimento, ma di sentirsi dei falliti. Mettere in discussione le proprie azioni non ha un effetto analogo a mettersi in discussione come persona. Quest’ultimo approccio crea profonda insicurezza che si trasforma in un aumento della paura.
  5. Confrontati con gli altri perché ti accorgerai che tutti hanno fatto esperienze simili e potrai cogliere stimoli per affrontare i tuoi ostacoli in modo più proficuo.

Ho incontrato molte persone di successo nella mia vita, persone oggettivamente realizzate e capaci di raggiungere gli obiettivi che si prefiggono. Contrariamente a quello che si potrebbe pensare queste persone hanno fallito più della media di noi, non meno. Ma hanno usato ogni fallimento per rialzarsi e ripartire più forti di prima. Hanno usato i fallimenti come uno strumento per allenarsi e non come catene da cui farsi intrappolare.

Cosa hanno in comune tutti i miei pazienti? Ecco i 3 problemi principali

Che rapporto hai con la tua salute?

Te lo chiedo perché ho notato che molte persone affrontano il rapporto con salute e malattia in modo poco equilibrato.

C’è chi ignora completamente la propria situazione clinica e aspetta che sia il medico a ricordargli di fare le analisi e chi invece ha sviluppato un timore tale della malattia da diventare ipocondriaco o ossessivo.

Tu ti rivedi in uno di questi profili o riesci a prenderti cura di te stesso con attenzione e senza mai perdere il controllo?

In realtà credo che l’unico rapporto “giusto” con la propria salute debba essere basato sull’amore per se stessi e per il proprio benessere.

La paura della malattia e ancor di più la paura della morte portano la maggior parte di noi a rifugiarsi nell’incoscienza e a fare le scelte sbagliate.

Ecco i tre problemi comuni tipici nella maggior parte dei pazienti.

Il rapporto con la propria salute è una cosa molto, molto personale, tocca la dimensione tecnica, concreta, ma tocca anche la dimensione emotiva, addirittura la dimensione spirituale se vogliamo, perché il rapporto con la propria salute definisce in qualche modo anche il rapporto che la persona ha con la vita e con la morte.

Devo dire che molte persone affrontano il rapporto con la propria salute in maniera tesa, non lineare e non semplice, un rapporto spesso caratterizzato da paura oppure da disinteresse o/e ossessione. Ecco, ogni volta che il nostro rapporto con la nostra salute prende una piega un po’ esasperata, finisce con il non essere qualcosa che ci dà il supporto che dovrebbe darci. In realtà l’unico vero rapporto sano con la propria salute dovrebbe essere un rapporto basato sull’amore e sull’ amor proprio, cosa non facilissima da vedere nelle persone, proprio perché il rapporto con la salute è una cosa molto complessa e tendenzialmente la paura della malattia, la paura della morte, porta la maggior parte di noi a rifugiarsi in un’area, che è appunto quella o della paura o del creare un muro attorno e far finta di niente.

Chi a volte supera quel muro lo supera entrando in una dimensione invece dell’esagerazione, dell’ossessione, quindi non pensano ad altro che alla salute, fino anche a sfociare in comportamenti che sono disfunzionali, come per esempio l’ipocondria o l’ortoressia.

Ecco però nella mia esperienza con migliaia di pazienti ho evidenziato perlomeno 3 problemi o 3 approcci che sono veramente ricorrenti e che credo valga la pena discutere perché possono aiutare tutti ad affrontare con maggior linearità e anche forse maggior spontaneità il rapporto con la propria salute.

  1. La mancanza di conoscenze

Le persone passano o da un’ignoranza totale nei confronti del proprio organismo, della propria mente, delle proprie esigenze, di come funzioniamo (sono sempre stupito del fatto che l’uomo moderno sa tutto di tutto, magari conosce a memoria il manuale del proprio telefonino, ma non sa assolutamente nulla di se stesso e di come effettivamente funziona) oppure, e la reputo comunque una mancanza, nel momento in cui subentra la paura allora cerchi di accumulare tutte le conoscenze in un attimo e in genere le accumuli male, quindi questo accumulo di conoscenze porta ad un’esasperazione dell’ansia e della tensione.
In realtà abbiamo bisogno di conoscenze non quando prendiamo paura, ma quando siamo stabili. Abbiamo bisogno di conoscenze che non sono tanto finalizzate a identificare la malattia, che è il compito del medico, non è il compito del paziente, ma a conoscere quali sono le variabili che mantengono la salute. Quindi le persone dovrebbero dedicare più attenzione a una formazione di base su quali sono le cose importanti per rimanere sani, invece la tendenza è di non sapere nulla e poi, quando sospetti di avere qualcosa, provare a sostituirti al medico, captando informazioni a destra e a sinistra in maniera scoordinata, cosa che porta a dei risultati non buoni.

  1. La mancanza di responsabilità

Tutti noi tendiamo a deresponsabilizzarci e, più il compito è difficile, più il compito ci fa un po’ paura, come quello della gestione del rapporto tra salute e malattia, più tendiamo a deresponsabilizzare all’esterno. Allora ci aspettiamo che la soluzione venga da altri, che sia il medico a darci la soluzione, che sia il trainer, che sia il coach, che sia lo psicologo…insomma sempre qualcuno di esterno. Questo va benissimo quando è necessario risolvere un problema concreto, ma non possiamo pensare di dare questa responsabilità del mantenimento della salute a lungo termine a qualcun’altro perché è una responsabilità nostra e voglio dire qualsiasi percorso di cambiamento passa dalla realizzazione delle tue responsabilità, anche nei confronti di quei danni che ti sei creato, in modo tale da percepire la tua responsabilità anche nel momento in cui ci sono dei successi. Ma se deleghi tutto all’esterno nessuna componente di questo percorso in realtà si realizzerà.

  1. La mancanza di controllo

anche nelle persone in cui si avvia un percorso di cambiamento, inizia un percorso di miglioramento della salute, quello che succede è che poi piano piano si rischia di andare fuori pista perché non si sono sviluppati dei meccanismi di controllo adeguati, e parlo proprio di meccanismi che ci fanno leggere, misurare e valutare quello che sta succedendo nel nostro percorso. Allora, se l’obiettivo è la riduzione del peso, d’accordo c’è la bilancia una volta la settimana, c’è la bioimpedenza per chi vuole una misurazione un po’ più sofisticata della massa corporea, ma per tante altre cose che riguardano aspetti meno concreti del nostro percorso di cambiamento e della gestione della nostra salute, il controllo in realtà manca totalmente.
Ecco in questi casi lo dobbiamo creare noi, per esempio una cosa di cui parlo spesso, ma che rientra anche in questo concetto, è la gestione di un diario, perché tramite la gestione di un diario e tramite la scrittura costante del nostro percorso di cambiamento siamo molto più precisi nella valutazione di quello che sta accadendo sul piano reale e concreto nel corso delle nostre giornate, ma anche sul piano psico-emotivo.

Allora l’importante qui è capire che la responsabilità, il dovere di gestire la nostra salute, sta solo in noi. Il medico o altre figure professionali subentrano e vanno benissimo nel momento in cui vogliamo gestire in maniera più tecnica un problema, ma non possiamo aspettarci di avere una balia al nostro fianco continuamente che ci dice “devi fare questo, devi fare quell’altro”.

Responsabilizzare noi stessi significa capire l’importanza delle nostre scelte e oggi sappiamo che sul piano scientifico l’epigenetica ha ampiamente dimostrato che ogni scelta che facciamo ha una ricaduta concreta e reale sul nostro organismo, ecco è arrivato il momento di non tirare fuori scuse, di smettere di lamentarsi e di mettersi al lavoro, ma con serenità, non con paura, non con ossessione, non con disinteresse, ma con la volontà bellissima di coltivare questo miracolo che ognuno di noi effettivamente è.

I principi di un’alimentazione corretta

Oggi  voglio parlare delle basi della nutrizione perché ti sarai reso conto anche tu che di nutrizione si parla tantissimo, ne parlano un po’ tutti, ma alle volte mancano quelle competenze di base per capire veramente meglio il discorso. Sento persone parlare dei 10 mg di sodio piuttosto che tot microgrammi di qualcos’altro, ma poi quando vai un po’ più in profondità e cerchi di capire se hanno compreso le basi dell’alimentazione ci sono tante cose che sfuggono.

Allora anche se è un super riassunto oggi voglio parlarti dei macronutrienti, dei micronutrienti e dei fitonutrienti che considero come le basi per costruire un piano alimentare corretto.

Allora partiamo dai macronutrienti. Questi sono ovviamente i carboidrati, i grassi e le proteine e sono le componenti macro, maggioritarie, della nostra alimentazione e sono quelle che apportano, diciamo così, i nutrienti fondamentali e l’energia necessaria per il nostro organismo per vivere.

Andiamo per ordine.

I carboidrati sono principalmente delle fonti energetiche e il loro ruolo nell’alimentazione è estremamente dipendente dal carico di lavoro che la persona fa. Dunque già qua ci sarebbe da discutere sull’atteggiamento di dire che i carboidrati sono essenziali in alte dosi e tutti. In realtà questo suggerimento di tenere alla base della piramide nutrizionale moltissimi carboidrati, accoppiato con una progressiva sedentarietà della popolazione, è indubbiamente una delle cause di questo grande aumento di peso che c’è stato in molte persone anche nel nostro paese.

I carboidrati dovrebbero venire prima di tutto dalle verdure che sono la versione più sana e più ricca di fibre e che dà meno impatto sulla nostra glicemia delle altre forme che sono la frutta e i cereali. La frutta è sicuramente un alimento sano, ma va gestito con un po’ di attenzione perché comunque è un alimento ricco di zuccheri e infine i cereali sono un condensato di energia sicuramente molto utili per le persone che fanno tanta attività fisica, ma dovrebbero essere intanto sempre integrali, in modo tale da mantenere una quota importante di fibra e da non dare eccessivi sbalzi anche questi della glicemia, ma poi dovrebbero anche essere diciamo gestiti in termini quantitativi in funzione dell’attività fisica che fai. Cioè, se fai tanta attività fisica, i livelli di cereali possono essere un po’ più alti, se ne fai poca dovresti stare un po’ attento.

Poi ci sono i grassi, anche questi hanno una funzione energetica importante ma prevalentemente a riposo. Sono un combustibile piuttosto lento e difficilmente i nostri muscoli riescono a utilizzare bene i grassi sotto sforzo, soltanto quando lo sforzo è veramente di intensità modesta. I grassi sono anche ovviamente un deposito di energia perché hanno più calorie di tutti gli altri nutrienti, sono 9 kcal per grammo, e i grassi hanno anche una funzione di modulazione del metabolismo molto importante per esempio sappiamo che i grassi sono dei fondamentali regolatori del processo di infiammazione e sono anche dei fondamentali regolatori della produzione di alcune categorie di ormoni. Anche qui la cosa importante è conoscerli. I grassi non vanno genericamente ridotti, vanno sicuramente ridotti grassi di tipo industriale come i grassi idrogenati, vanno mantenute le categorie dei grassi polinsaturi in particolare gli Omega 3 presenti nel pesce azzurro sono estremamente importanti, anche i grassi monoinsaturi per esempio l’olio d’oliva o l’avocado sono molto importanti e una quota non esagerata, ma comunque presente, anche di grassi saturi oggi viene considerata necessaria.
Grassi saturi che possono provenire da alimenti in piccole quantità come il burro, ma anche semplicemente da quei grassi che sono presenti nei cibi di origine animale.

Poi infine ci sono le proteine. Le proteine sono forse quella categoria di macronutrienti che è stata più demonizzata in questi anni, dal mio punto di vista un po’ a torto. Una delle ragioni di questa demonizzazione è che sempre più persone hanno in realtà introdotto delle proteine di scarsa qualità. È chiaro che uno sgombro cotto al vapore non è esattamente uguale a una salsiccia bruciata alla griglia. Ecco spesso si fa confusione, si mette tutto sotto lo stesso cappello e si parla di proteine di origine animale, ma in realtà bisognerebbe distinguere.
Le proteine hanno un ruolo fondamentale nel nostro organismo che è quello strutturale; noi dal punto di vista strutturale siamo fondamentalmente fatti di proteine e dunque abbiamo bisogno di un introito adeguato di proteine. Le proteine poi sono anche importanti per la formazione di enzimi che sono un po’ il regolatore dei processi metabolici nel nostro organismo e infine anche le proteine sono necessarie per produrre alcuni ormoni.

C’è un grande dibattito su proteine animali e proteine vegetali, io credo che ci sia posto per entrambe selezionando la qualità, la provenienza e modelli di allevamento per quello che riguarda le proteine di tipo animale e però comprendendo invece, per quello che riguarda le proteine di origine vegetale, che ogni volta che le assumo, assumo anche una buona quantità di carboidrati perché la famiglia dei legumi, certamente apporta proteine, ma apporta anche un un’aggiunta di carboidrati.

Poi ci sono i micronutrienti. Qui si potrebbe parlare per moltissimo tempo, ma diciamo fondamentalmente vitamine e minerali sono grandi regolatori dei processi metabolici e biochimici del nostro corpo. Quindi quando noi assumiamo un alimento dobbiamo ricordarci che non è semplicemente il valore nutrizionale quello che conta, ma è anche quella che viene definita la “densità di micronutrienti” che questo alimento può avere. Chiaro che più l’alimento è raffinato, prodotto con metodi di produzione molto intensivi, quindi diciamo più è moderno e meno genuino probabilmente, minore sarà la densità di micronutrienti.

Ora nel mondo occidentale sappiamo che difficilmente arriveremo a una carenza tale da far emergere lo scorbuto o la pellagra, che sono patologie vere da deficienze vitaminiche, ma ciononostante alcuni ricercatori sostengono che le micro carenze croniche sono molto presenti nella popolazione e sono degli acceleratori in realtà dell’invecchiamento. Quindi è molto importante considerare sempre anche la genuinità dell’alimento in modo tale che sia più denso di micronutrienti.

Ecco poi l’ultima categoria di cui voglio parlare: sono i fitonutrienti, che sono ovviamente invece quelle molecole contenute negli alimenti di origine vegetale, che hanno negli ultimi anni dimostrato di essere dei fondamentali protettori e riparatori delle nostre cellule. È molto interessante tutto questo filone di ricerca che deriva da un capitolo che viene chiamato “ormesi” e l’ormesi è una risposta che nasce in un organismo vivente quando viene stressato con un micro agente stressante che promuove una risposta di riparazione.

Ora il mondo vegetale, le piante, sono molto abili a rispondere agli stimoli ormetici. I cambiamenti di temperatura, di ambiente, le varie stagioni, fanno sì che la pianta produca tantissime molecole che servono alla pianta stessa per ripararsi, ma nel momento in cui noi ingeriamo quell’alimento ci impossessiamo un po’ di queste capacità di riparazione.

Allora per concludere voglio dire: l’alimentazione è un tema molto complesso e riguarda tutti noi. Non è un tema che riguarda soltanto i tecnici della nutrizione, riguarda tutti noi perché tutti noi mangiamo. Però è importante non dare troppo peso ai dettagli e alle mode, quanto avere molto chiari i principi di base, perché se hai chiari i principi di base e che cosa serve per costruire un’alimentazione corretta, ogni notizia con cui verrai a contatto la potrai valutare per la sua credibilità e applicabilità nel tempo.

Mangiare meglio non basta

Lo sappiamo bene: una buona parte delle persone mangia troppo e male. Ma ci sono altri che pensano che mangiando meglio, ossia scegliendo con maggior attenzione gli alimenti, si sia risolto ogni problema. Purtroppo entrambi si sbagliano. Si può ingrassare a dismisura e perfino incorrere in malattie metaboliche anche mangiando olio extravergine d’oliva, noci, mandorle, avocado, cioccolata fondente e frutti di bosco.

Il cibo ci ha accompagnati nel corso della nostra storia evolutiva con un ruolo da protagonista. Ovviamente come fonte di sostentamento che permette la sopravvivenza, ma anche come piacere che rende la vita più bella.

Mano a mano però che l’uomo ha modificato la propria realtà naturale e che ha imparato a procurarsi cibo senza dover fare alcuno sforzo, il ruolo degli alimenti come fonte di piacere è diventato assolutamente predominante.

L’industria alimentare ha colto perfettamente questa evoluzione e ha imparato a giocare con la nostra risposta neuro-comportamentale al cibo. Un po’ più di zucchero qui e lì e i consumi miracolosamente aumentano. Una miscela nuova di grassi e sale e lo snack diventa irresistibile!

Zuccheri, grassi e sale enfatizzano il naturale rilascio di dopamina collegato all’assunzione di cibo o perfino alla sola aspettativa di mangiare qualcosa di buono. Miscele artificiali di questi ingredienti portano ognuno di noi al cosiddetto bliss point, un punto di massimo piacere reso possibile proprio dal massiccio rilascio di dopamina che ci fa sentire appagati e felici. Il problema è che in questo modo diventiamo dipendenti dalla ricerca di questo piacere artificiale, finendo con il mangiare  sempre di più.

Così ci ritroviamo oggi con un epidemico aumento di sovrappeso, obesità, diabete, malattie cardiocircolatorie, tumori e altre patologie legate in qualche modo allo stile alimentare e di vita nel suo complesso.

Un’industria che distrugge i propri clienti non ha lunga vita e quindi, per fortuna, stiamo assistendo ad una graduale inversione di tendenza. Sempre più aziende si sforzano di produrre e distribuire alimenti più sani e le persone sembrano avere una nuova consapevolezza sul ruolo che il cibo ha nella nostra salute.

Tuttavia mangiare meglio non basta. La vera sfida è mangiare meglio e meno e consumare di più. L’idea di mangiare meno non è particolarmente interessante per industrie, grande distribuzione e appassionati di cucina, ma è esattamente ciò che ci suggerisce la ricerca.

Da decadi molti studi indicano che è essenziale ripristinare quell’antico equilibrio tra introiti e consumi, quella condizione legata al nostro passato di cacciatori/raccoglitori costretti a fare un’enorme fatica per ogni caloria conquistata.

Ripristinare questo equilibrio consumando di più e mangiando di meno attiva una lunga serie di circuiti rigenerativi nelle nostre cellule e sembra essere capace di promuovere longevità e salute.

Quindi sostituire lo zucchero con lo sciroppo d’agave non è un atto particolarmente rivoluzionario, ma piuttosto un modo di rimanere in qualche modo dipendente dal cibo e dal compenso emotivo che ci offre e di non modificare di una virgola il proprio comportamento. Il risultato sul piano metabolico differisce poco dall’usare il classico zucchero.

Del resto concentrarsi sul ruolo potenzialmente benefico di un singolo alimento, di una dieta momentaneamente di moda o di un supercibo che viene da luoghi lontani è spesso un modo per distrarsi da quei cambiamenti comportamentali che sono invece le vere soluzioni a lungo termine.

Mangiare meno non è facile. È molto più semplice correggere, sostituire, cambiare continuando a mangiare come prima in termini quantitativi. Ma imparare a mangiare meno è un atto di grande cambiamento e una fondamentale dimostrazione di autocontrollo.

D’altra parte esiste anche un altro aspetto spesso trascurato: quello del consumare di più. Anche in questo caso mettere in moto il nostro corpo e svolgere attività fisica regolare non è facile e richiede un grado elevato di controllo sulla propria vita.

Quindi, per quanto mangiare meglio possa essere utile, sarebbe molto meglio impostare due strategie capaci di avere un’azione ancora più potente sulla nostra salute longevità:

  1. Mangia di meno: riduci tutte le porzioni del 10-15%, impara a tollerare la fame, esplora la possibilità di fare il digiuno intermittente come ulteriore intervento per rafforzare la risposta metabolica e quella comportamentale. L’approccio più semplice è quello cosiddetto 16/8: 16 ore di digiuno seguite da una finestra di 8 ore in cui si mangia.
  2. Consuma di più: abbassa il riscaldamento a casa e in particolare nella stanza in cui dormi, svolgi attività fisica regolarmente, scegli ogni opzione nella vita che permetta un maggior consumo calorico (fare le scale, muoverti a piedi e in bici, stare in piedi durante le ore lavorative per esempio).

Correggere gli errori alimentari e sostituire alimenti dannosi con cibi più genuini è certamente utile. Tuttavia è solo un primo passo dopo il quale troppo spesso le persone si fermano. Occorre fare di più e in particolare lavorare al ripristino di un delicato e fondamentale equilibrio che prevede di ridurre le calorie ingerite e aumentare quelle consumate.

Usare il corpo per cambiare le emozioni

Prova a fare uno sforzo massimale sorridendo. Oppure prova ad avere una faccia arrabbiata e seccata mentre guardi un cucciolo. O ancora sforzati di avere un atteggiamento completamente annoiato quando ti stai divertendo come un pazzo.

È molto difficile, se non impossibile, mostrarsi diversi da come si è in profondità. Per questo motivo i grandi attori non fingono, ma al contrario vivono appieno gli stati emotivi che vogliono trasmettere.


Esiste una stretta relazione tra fisiologia ed emotività
, tra condizioni del nostro corpo e interpretazioni della nostra psiche. Questa interconnessione rispecchia completamente la nostra storia evolutiva che vede una mente sempre più complessa e capace di riflettere su se stessa svilupparsi al di sopra di apparati più semplici ed istintivi. Noi, come ogni animale, siamo programmati per rispondere agli stimoli ambientali in modo integrato, con corpo, mente ed emozioni. Questo canale di comunicazione tra i vari livelli di organizzazione del nostro corpo è incredibilmente efficace se impariamo a capirlo e a gestirlo.

La maggior parte di noi ritiene che sia sempre la mente a comandare, ma non è necessariamente così. Pensiamo che essere giù di umore sia un fatto puramente psicologico e che questo condizioni il funzionamento del corpo imponendoci un certo tipo di postura e di espressione facciale. A volte però questo calo del tono dell’umore può essere causato da una nutrizione errata, da un corpo debole o da una salute precaria. Quello che spesso ci dimentichiamo è che la comunicazione tra corpo e mente è bidirezionale, ossia i diversi stati emotivi influenzano il corpo così come differenti condizioni corporee cambiano lo stato mentale di una persona. Proprio per questo, sempre gli attori, imparano ad usare molto bene il loro corpo per innescare e fare emergere le condizioni emotive che desiderano, perfezionando così l’immedesimazione con il personaggio che devono interpretare.

PER APPROFONDIRE: I 4 killer della salute

La maggior parte di noi subisce questi meccanismi e non li controlla per niente, ma ognuno può imparare a sfruttarli meglio per migliorare l’interazione tra mente e corpo e in particolare per usare il corpo per cambiare lo stato emotivo in cui ci si trova.

Proviamo a fare degli esempi considerando che il corpo non riconosce le sfumature delle diverse condizioni psico emotive.

  1. Stati emotivi di scarso entusiasmo, stanchezza, negatività corrispondono ad una complessiva ipo-attivazione dell’organismo. L’obiettivo è riattivare corpo e mente e questo può essere fatto con esercizi fisici di forza e potenza (balzi, salti, ma anche ballo), tecniche respiratorie specifiche come la respirazione di fuoco del pranayama nello yoga (una respirazione addominale veloce, ritmica e con la stessa tempistica tra inspiro ed espiro) o la respirazione tattica usata dai militari delle forze speciali (stesso tempo di 3-4 secondi per inspirazione, pausa, espirazione, pausa).
  2. Stati emotivi di tensione, paura, rabbia, frustrazione corrispondono ad una  generale iper-attivazione. L’obiettivo in questo caso è di disattivare e funzionano molto bene le tecniche di rilassamento come il training autogeno, la meditazione, la respirazione addominale lenta e profonda, il massaggio.

PER APPROFONDIRE: Come meditare: 5 errori da evitare

Una condizione fondamentale per poter iniziare un lavoro di miglioramento del proprio stato emotivo è quella di essere in grado di percepire lo stato in cui ci si trova. Come per molti altri aspetti del miglioramento personale, è una questione di consapevolezza e abitudine. Si potrebbe iniziare con il chiedersi con una certa regolarità se si è iperattivi o ipoattivi. Questa semplice domanda porta con sé l’immediata conseguenza di orientare i nostri comportamenti verso le vere esigenze del nostro organismo invece che rimanere vittima delle condizioni in cui ci si trova.

Migliorare la propria prestazione è una questione di equilibrio. Si deve acquisire la capacità di scaricare tutta la potenza al suolo esattamente quando serve e poi di recuperare prima della prossima necessità. Queste tecniche saranno solo alcuni degli argomenti che tratteremo durante Soul Warriors, l’evento che terrò a Riccione il prossimo 1-3 dicembre interamente dedicato al miglioramento della prestazione. Puoi trovare tutte le informazioni qui.

Il tuo successo parte dalle tue aspettative

Ti sei mai fermato a riflettere su cosa voglia dire per te “avere successo”?

Magari pensi che una persona abbia successo quando arriva a possedere una bella macchina o tanti soldi in banca. Ma sei davvero sicuro che si tratti di successo?

Molti si credono “arrivati” quando rientrano in certi parametri di ricchezza o fama. Io invece penso che il successo non sia riducibile a una semplice scala di valori, ma ad un rapporto tra risultati e aspettative!

Affrontiamo proprio il tema del “successo” e di cosa serve realmente nella vita per essere felici.

Vuoi scoprire come riuscire ad accettare e superare gli ostacoli e i rallentamenti che ti si pongono davanti ogni giorno? Vuoi sapere come fare per massimizzare i tuoi risultati sul piano dell’appagamento emotivo?

Oggi voglio parlarti di un argomento che può sembrare un po’ strano e un po’ fuori dagli schemi di quello di cui mi occupo di solito, ma poi nemmeno così tanto: il successo.

Perché parlo di successo? Perché avendo da molto tempo promosso il concetto del vivere a pieno, credo di essermi in un certo senso avvicinato all’idea che le persone hanno del vivere a pieno e spesso questa idea coincide con un’idea di successo, cioè la vita a pieno è una vita di successo.

Allora ho iniziato ad occuparmi di questo concetto, anche parlando in maniera abbastanza approfondita con tante persone, con i pazienti, di che cosa per loro questo concetto significa, come si fa a definire questo parametro.

Viviamo in una società che non fa altro che imporci dei modelli di successo, che non è assolutamente detto che siano i nostri.

Il successo è avere 4 case, 50 macchine, 4 yacht, un elicottero.. forse per qualcuno sì. Per qualcun’altro no. Se uno entra in contatto con molte di quelle persone che vivono in quella realtà, e non sono poi così poche, devo dire che non sempre sembra una vita di successo sul piano interiore, sul piano emotivo. Anzi a volte si ha l’impressione che più le persone si riempiono di cose esterne, più si svuotano di cose interne. E, è un vecchio discorso non sto dicendo nulla di nuovo, molto spesso si incontrano invece altri soggetti che materialmente parlando possono essere definite persone che hanno poco, ma che hanno una ricchezza interiore, una sensazione di appagamento invece molto molto profonda.

Allora credo che sia importante per capire bene che cosa vuol dire vivere a pieno e che cosa si intende per “successo” mettersi in testa che il successo può essere definito soltanto come il rapporto tra i risultati che hai nella vita e le aspettative che hai, e questo è un concetto estremamente importante, quindi il successo non può essere misurato da un parametro, ma deve essere isolato da un rapporto. Dunque se tu hai delle aspettative enormi, beh i tuoi risultati ti sembreranno sempre insufficienti e dunque la percezione di successo di vita a pieno sarà sicuramente molto molto modesta, se non addirittura del tutto assente. Al contrario, se uno modera le sue aspettative, i risultati che ottiene lo appagheranno molto e la percezione di successo sarà molto alta.

Penso quindi che sia abbastanza chiaro che il lavoro che va fatto, è in particolare a livello delle proprie aspettative, non perché bisogna per forza ridurre al minimo le aspettative, ma perché bisogna imparare a governare quelle pulsioni fuori controllo che portano le aspettative a livelli tali che non siamo mai in grado di soddisfarle completamente. Questo è un concetto molto importante che in psicologia viene chiamato “adattamento edonistico”, di cui siamo un po’ tutti delle vittime oggi nella nostra società. Cosa vuol dire adattamento edonistico? Sogno per tantissimo tempo e con tantissima intensità di avere quell’ultimo modello della macchina che mi fa impazzire, compro quella macchina che mi fa impazzire perché ritengo che questo mi dia una soddisfazione incredibile e sia finalmente quell’ultimo tassello che mi manca per essere veramente felice e appena inizio a guidarla questa felicità comincia a sfumare e dopo un po’ che la sto guidando inizio a sognare qualcos’altro. Il processo si ripete all’infinito e porta appunto a quell’accumulo di beni materiali che non sarà mai in grado di dare una vera sensazione di vita a pieno e di successo.

Ora come si lavora sulla modulazione di queste aspettative? Ribadisco, non tanto sminuendole perché non è neanche pensabile che una vita a pieno sia la vita di uno che mette sempre il freno a mano e dice “no non posso fare nulla”. No, la chiave di lettura è un’altra: è lavorare sulle aspettative con l’inserimento di un allenamento alla gratitudine, perché se veramente sviluppi questa capacità di essere grato e non soltanto i 5 minuti in cui ti concentri, ma nel corso delle 24 ore della giornata, nelle piccole cose, nel modo in cui comunichi con gli altri, nel modo in cui comunichi con i tuoi familiari, nel modo in cui gestisci il tuo auto dialogo, anche di fronte alle cose che non vanno esattamente come volevi, nel momento in cui sei in grado di gestire le tue irritazioni senza sfogarti su tutti quelli che ti girano attorno. Ecco cosa vuol dire modulare le aspettative, comprendere che il mondo non è lì per te, ma forse sei tu lì per il mondo, che sono due chiavi di lettura molto differenti.

Il vero successo è questo; il vero successo è mettersi al servizio di una causa, accettare gli ostacoli, accettare i rallentamenti, lavorare sulle proprie irritazioni, gestire le proprie aspettative, massimizzare i propri risultati sul piano dell’appagamento emotivo come fanno i bambini che scoppiano di gioia davanti anche a cose semplicissime, fino a quando noi adulti non cominciamo ad diseducarli e non cominciamo a comprargli ogni volta una cosa in più invece di fargli capire quanto preziosa è quella singola cosa e quanto piacere quella piccola singola cosa può dare nel tempo.

Quindi ricordati che il successo non può essere misurato con un parametro, è un rapporto tra i risultati che ottieni e le aspettative che hai. Se non lavori su quelle aspettative tutto quello che otterrai come risultato non ti porterà a percepire successo e gradualmente sgretolerà la tua realtà interiore fino a trovarti circondato da tantissime belle cose, ma totalmente solo all’interno.

3 passi per rendere il 2018 l’anno più sano che hai mai vissuto

Come sempre dicembre e gennaio sono mesi in cui i bilanci sul passato si intrecciano con i progetti per il futuro. Le settimane tra la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo sono spesso ricche di obiettivi ambiziosi, buoni propositi e pentimenti per gli errori commessi.

Purtroppo molto spesso tutto ciò sfuma un po’ miseramente già alla fine di gennaio, quando torniamo ad essere vittime delle solite routine e abitudini.

Un esempio classico riguarda l’attività fisica. Attorno a Natale iniziano i pentimenti resi più che mai vivi dalle esagerazioni gastronomiche tipiche delle vacanze. A gennaio le persone si iscrivono in palestra convinte di farcela a rimettersi in forma. Le iscrizioni raggiungono un picco alla fine di gennaio, ma già a marzo le palestre iniziano a svuotarsi. Succede così anno dopo anno.

Ma cosa determina questo atteggiamento un po’ contraddittorio? Le risposte potrebbero essere molte, ma in estrema sintesi possiamo dire che i nostri sogni si infrangono contro la dura realtà. Manchiamo di una strategia che ci permetta di evitare false partenze e di raggiungere uno stato in cui le vecchie abitudini sono un lontano ricordo e le nuove non costano particolare fatica.

Da dove iniziare allora? Ecco qui 3 punti che ti possono essere utili:

  1. Avere aspettative realistiche:

Il successo in qualsiasi azione dipende da un rapporto tra i risultati ottenuti e le aspettative con cui partiamo. Nel cambiare abitudini di vita molto spesso le persone hanno aspettative eccessive e irreali. Rimettersi in forma in due mesi dopo trent’anni di sedentarietà è un esempio tipico. Così come voler smettere di fumare, cambiare dieta, iniziare ad allenarsi tutto nello stesso momento. Le nostre abitudini possono cambiare, ma la prima regola è di fare un passo alla volta e di aver chiaro il lavoro che dobbiamo affrontare.

  1. Puntare a sostituire vecchie abitudini con nuove:

Il primo obiettivo a cui dovremmo puntare non è un risultato in sé, ma un fondamentale prerequisito Facciamo un esempio. Supponiamo che una persona si metta in testa di rimettersi in forma e scelga di andare a correre ogni mattina, prima del lavoro. Se nel fare questo la persona pensa immediatamente ai benefici che otterrà, a quanto bravo sarà nel correre, agli incredibili risultati fisici che arriveranno poco dopo, rischia di rimanere profondamente deluso e di mollare sotto il peso della frustrazione. Se la stessa persona si concentra semplicemente nel trasformare la sua scelta in una vera abitudine, alla lunga, passo dopo passo arriveranno anche i risultati. Concentrarsi sul creare un’abitudine vuol dire dimenticarsi di tutto tranne che del gesto in sé. Vuol dire iniziare piano e con poco, ma non cedere nemmeno se fa caldo, se nevica o se soffia un vento terribile. Così, nel giro di qualche mese quel gesto diventa automatico e a quel punto possiamo alzare il tiro e  pensare ai risultati.

  1. Scoprire la virtù del riposo

Siamo tutti troppo stanchi. Oggi la stanchezza è un male così diffuso da venire completamente trascurato. Eppure un numero eccessivo di ore di lavoro, continue interruzioni e distrazioni date da telefoni e internet, esposizione costante al rumore della città e perfino stress da vacanze, fanno sì che la maggior parte di noi abbia risorse molto limitate con cui affrontare il cambiamento. Ma non possiamo dimenticarci che cambiare costa fatica e che tutto diventa difficile, anche le cose a cui siamo abituati, quando le risorse sono troppo scarse. Un buon modo per affrontare l’introduzione di nuove abitudini è di farlo da una condizione di completo recupero. Per esempio se dobbiamo prendere l’abitudine di fare attività fisica ogni giorno conviene provare la mattina presto. Alla sera saremo stanchi e certamente troveremo mille scuse per rimandare.

Prendersi cura di sé non è così complesso come sembra. Non lo facciamo abbastanza, anche se sappiamo quanto importante sia, perché siamo distratti, oberati da mille impegni e troppo stanchi per aggiungere un compito in più.

Partiamo da piccoli passi e ripetiamoli nel tempo, così il nostro cambiamento acquisirà forza fino a diventare una valanga inarrestabile.

Rimani forte, vivi a pieno! 

Ti stai allenando troppo? Ecco 3 modi per capirlo.

Hai mai sentito parlare di sovrallenamento?

Il problema più diffuso oggi è certamente la sedentarietà, ma anche chi si allena con costanza e disciplina va incontro a rischi, come quello di fare troppi sforzi e di compromettere sia i risultati, che la propria salute.

Per comprendere a fondo il concetto di sovrallenamento dobbiamo partire da una regola fondamentale della biologia: il miglioramento di un organismo avviene attraverso un delicato rapporto tra stress e recupero.

E come facciamo a mantenere inalterato questo rapporto?

Ma come si riconosce questo sovrallenamento?

Attraverso 3 punti principali: 

  • scarsità di risultati
  • stanchezza (abbinata ad una maggiore suscettibilità alle patologie infettive) 
  • calo della motivazione

Oltre a questi “sintomi” è anche bene distinguere i due stadi del sovrallenamento, uno collegato al sistema nervoso simpatico e l’altro collegato al sistema nervoso parasimpatico.

Il problema più diffuso oggi è certamente la sedentarietà, ma in chi invece l’attività fisica la fa seriamente, in chi si allena con costanza e disciplina c’è un altro rischio che forse è più importante di quello che si può pensare, ed è il rischio di sovra-allenamento, cioè il rischio di fare troppo e di compromettere così a lungo termine sia i risultati che si ottengono, che la propria salute.

Per capire il concetto di sovrallenamento dobbiamo partire da una regola fondamentale della biologia e la regola è che la crescita, il miglioramento di un organismo, avviene grazie ad un rapporto delicato e assolutamente fondamentale tra stress e recupero, tra carico e scarico, cioè l’organismo risponde a un meccanismo che prevede la spinta da una parte (e in questo caso se stiamo parlando di allenamento sarà la spinta data dal carico di lavoro in allenamento), ma anche dal recupero che è il vero momento chiave in cui l’organismo utilizza le risorse energetiche per creare nuovo tessuto, per riparare il danno e in parole molto semplici per diventare più forte. Il recupero è il momento in cui l’organismo diventa più forte. L’allenamento è il momento in cui sono in grado di dare quella spinta all’organismo che lo destabilizza, gli fa perdere per un momento l’equilibrio, ed è proprio quella spinta che durante il recupero permette appunto la crescita e il miglioramento.

Il sovrallenamento è un problema discusso nella comunità scientifica da tantissimo tempo perché è un problema serio per gli atleti agonisti, per i professionisti, ma è anche abbastanza difficile da quantificare e diagnosticare perché ovviamente la crescita e il miglioramento avvengono ad un passo dal sovrallenamento. È chiaro che se uno ci sta troppo lontano e sta molto di più nella fase di recupero, o non di carico, l’organismo non sarà abbastanza stimolato a migliorare. Dunque è un confine molto molto sottile, ma c’è un problema però che spesso viene trascurato, cioè lo stress inteso come allenamento va a sommarsi allo stress della vita di una persona e questo è particolarmente vero per l’atleta che non è un professionista.

Il professionista ovviamente fa fondamentalmente solo quello, anche se non è proprio vero questo perché il professionista poi è sollecitato da tanti altri stimoli come i media, i giornali, quello che si dice di lui, cioè non è così semplice come uno può immaginarselo, ma comunque sia il professionista ha l’attività fisica al centro della sua vita.

L’agonista o l’atleta serio, ma non professionista, ha ovviamente tante altre cose a cui badare, per esempio un lavoro, e quindi lo stress accumulato nell’allenamento va a sommarsi allo stress della vita e questo incide in maniera molto profonda sulla capacità di recupero. A lungo andare questa situazione si traduce in un vero e proprio sovrallenamento, cioè in una condizione che porta l’atleta completamente fuori strada.

Come si riconosce questo sovrallenamento?

  1. Il punto numero 1 è ovviamente una scarsità di risultati. Quando si entra in stallo, quando pur allenandosi bene si vede che i risultati non vengono, o addirittura si ha un peggioramento, non è sempre così, ma in una stragrande maggioranza dei casi è bene interrogarsi sul fatto che magari si sta facendo troppo. Potrebbe essere che si sta facendo troppo poco, ma se si è degli atleti seri è poco probabile, è più probabile che l’esagerazione avvenga in senso di eccesso di allenamento.Allora se mi sto allenando veramente bene, veramente tanto e vedo che risultati non vengono, la domanda da farsi è “non è il caso forse di fare un pochino meno?”. Ecco questo è il primo punto.
  2. Il secondo punto è una generica stanchezza associata molto spesso ad una aumentata suscettibilità alle patologie infettive anche banali come l’influenza, il raffreddore… Quando per tanto tempo ci si sente stanchi e si vede che il sistema immunitario non risponde in maniera corretta, anche lì devo sospettare che forse il corpo mi sta chiedendo riposo.
  3. Il terzo punto molto importante è il calo della motivazione. Questo è un punto più emotivo che fisico se vogliamo, ma anche qua è il nostro organismo che dice “Rallenta”. Se non hai voglia ci deve essere un motivo, soprattutto se sei un atleta serio, perché l’atleta serio non casca mai in quella trappola della mancanza di voglia legata alla pigrizia. Quindi anche questo è un segnale.

Oltre a tutto questo è importante anche distinguere due stadi del sovrallenamento: uno stadio che riguarda più il sistema nervoso simpatico, che non è simpatico come uno può pensare, ma è la parte del sistema nervoso autonomo deputata alla risposta da stress, alla risposta da fuga e combattimento quindi è quella componente del sistema nervoso che ci attiva. Quando questo è sovrastimolato, il sovrallenamento dà delle sintomatologie da sovrastimolazione, quindi per esempio l’agitazione, l’irritabilità, l’insonnia, la tachicardia, la perdita di peso.. Queste sono spesso indicazioni di un sovrallenamento indotto da una iperattivazione del sistema nervoso simpatico.

A volte questo è il primo stadio del sovrallenamento e poi si passa al secondo, a volte rimane questo, a volte c’è una distinzione tra le tipologie di sovrallenamento in funzione dell’attività fisica fatta. Per esempio il sovrallenamento di tipo simpatico è più probabile negli sport di potenza e di velocità, l’altra tipologia di sovrallenamento è quella invece indotta più dal sistema nervoso parasimpatico che è il sistema generalmente legato al recupero e alla calma, ma che ha anche un connotato però, invece di bloccare la risposta dell’organismo allo stimolo esterno, in questo caso i sintomi che la persona avrà saranno invece un po’ al contrario, la bradicardia, l’aumento di peso, la sonnolenza, la mancanza di voglia, la spossatezza… questi sono sintomi appunto più legati al parasimpatico.

Come ti dicevo possono essere due stadi, cioè inizia il sovrallenamento con una versione più legata al sistema nervoso simpatico e poi diventa, se continuo a sovrallenarmi, sistema nervoso parasimpatico, oppure può essere una distinzione legata alla tipologia di sport che faccio. Sport di forza e di potenza hanno più la tendenza ad un sovrallenamento di tipo simpatico, sport invece di lunga durata e resistenza più un sovrallenamento di tipo parasimpatico.

In conclusione cosa è importante capire? È importante capire che se sei un atleta serio è difficile che tu faccia troppo poco, perché sennò non saresti un atleta serio. Quindi quando vedi che ci sono delle cose che non funzionano nella tua risposta fisiologica ai carichi di lavoro, prova a ipotizzare che la soluzione sia fare meno. Fare meno significa perlomeno due cose: 1) organizzare il proprio allenamento o meglio la periodizzazione dell’allenamento con dei criteri scientifici; se non li hai tu, ti devi fare aiutare da un trainer capace, perché l’allenamento non è soltanto carico carico carico, ma è diciamo un armonico bilanciamento tra tipologie di allenamento e tipologie di recuperi nel corso del tempo 2) più semplice, ma altrettanto importante, ogni tre mesi una settimana di interruzione completa nella maggior parte dei casi è un fenomenale metodo per evitare il sovrallenamento e per garantirsi che lo sforzo che fai si traduca sempre in risultati concreti.